25/07/13

Il buco #5 (paragrafi 13 e 14)


13.

Mi sveglio di colpo, madido di sudore. Il televisore trasmette un vecchio film di guerra in bianco e nero, e l’intera stanza (terra) è illuminata da una luce grigia. Non ci sono più colori perché tu, laida presenza nascosta nel buco, li hai assorbiti tutti, goccia per goccia.

E mi osservi, dal tuo sicuro riparo.

Ma io ora lo so come fermarti.

E non sarò così scemo da disporre delle inutili trappole.

Mi alzo.

Lo specchio del bagno mi rimanda l’immagine di uno sconosciuto.

Tolgo la camicia e la ripongo nel cesto della biancheria.

E adesso siamo soli, io e te.

Adesso

Ti massacro

Ti stritolo

Ti schiaccio

E tu muori

Muori

Muori cazzo!

Si! MUORI!!!


14.

La città si è tinta di un grigio smorto.

Serpeggio fra un’auto e l’altra, evitando il contatto diretto dello sguardo con i lampeggianti blu, per non restare abbagliato.

Davanti al portone, ferma, con le porte posteriori spalancate, c’è un’ambulanza bianca e rossa, circondate da alcune auto della polizia, che le bloccano la strada in caso debba partire di corsa.  

Il poliziotto in divisa che sta sulla porta mi riconosce al volo, e mi dice di salire al terzo piano.

La porta è aperta (sfondata) su un salotto illuminato solo dalla luce che proviene da una televisione. L’Ispettore Capo mi attende all’interno e mi scorta lungo un corridoio tappezzato dal volto di alcuni poliziotti che conosco bene.

Sembrano secoli, ma alla fine attraverso lo spazio angusto, sfiorando con le spalle i corpi dei presenti, che appiccicati alle pareti sembrano poster sbiaditi.

Faccio un cenno di saluto a Fabbri, che ricambia controvoglia, poi do una pacca sulla spalla a Lazzarini, che al mio tocco si accascia contro la parete, quasi a volervi sprofondare dentro. Non vedo il suo collega, quell’idiota di Santi, ma non può essere molto distante.

Ecco, nell’oscurità prende forma e lo vedo.

Metà dentro e metà fuori dal bagno.

Un buco.

Rosso.

Che sembra un fiore di carne.

Che divora ogni colore, lasciando tutt’attorno solo grigio.

Un buco rosso. Che sembra un fiore di carne in cui gocciola ogni colore del mondo.

E al suo interno spunta metallica una lama, come una spina.

Una spina metallica. Al Centro di un buco. Nel centro di un torace. Nel centro di un uomo. Nel centro della porta del bagno. Nel centro di un palazzo. Nel centro della città. E scommetto che salendo ancora, su, fino oltre l’universo. Nel centro dell’universo ci sarebbe solo quel buco.

Alzo lo sguardo e fisso Fabbri, che sembra quasi sul punto di piangere.

Mi avvicino al corpo ed inizio i primi rilevamenti, temperatura interna, rigidità cadaverica, ora presunta della morte, compatibilità della ferita e della posizione dell’arma con un colpo auto inflitto. Riferisco al Capo ogni cosa, tranne un dettaglio. Dopo aver conficcato il coltello nello stomaco, puntato verso l’alto, passando dietro lo sterno come a voler raggiungere direttamente il cuore, la vittima lo ha roteato più volte nella ferita, creando quel buco slabbrato, rosso, che sembra un fiore.

Mentre proseguo il mio esame poso delicatamente un fazzoletto bianco sul volto della vittima. Noto compiacimento nei poliziotti presenti, che non sanno che non è un gesto di riguardo, ma l’incapacità di sopportare quegli occhi sbarrati che mi fissano, e quel ghigno sadico che contrae le labbra, schiuse su una fila di denti bianchi, come se fosse sul punto di scattare verso la mia gola ed azzannarmi.

Sto scarabocchiando il certificato di morte quando, con la coda dell’occhio, proprio là, sul fondo del bagno, noto un movimento fulmineo. Grido e lascio cadere la penna, mentre l’indice destro tremante si punta accusatorio verso un cumulo di plastica abbandonato al suolo.

Il Capo ridacchia, scavalca il cadavere e con un piede smuove quel che altro non è che la tenda della doccia, strappata dai suoi supporti e gettata a terra, chissà per quale motivo, rassicurandomi che non c’è nulla di cui aver paura, ma che comprende come io possa avere scambiato un riflesso sulla plastica traslucida per una presenza inquietante.

Percorrendo il Centro di Bologna ci si può
imbattere in canali a cielo aperto, proprio come
a Venezia. 
Gli infilo in mano il certificato di morte, e scappo via da quell’appartamento, incurante del sarcasmo che ho suscitato nell’Ispettore. Corro giù per le scale, come uno scolaretto si avventa verso l’uscita al suono della campanella e mi ritrovo in strada.

Alzo il capo al cielo, a lasciare che la pioggia grigia mi lavi di dosso quella sensazione di orrore che mi ha assalito e mi accendo una sigaretta.

Calmati, sei solo scosso. In fin dei conti non capita tutti i giorni di vedere un uomo che si trasforma in un buco.

Mi incammino per le vie del centro, diretto all’obitorio, e d’improvviso avverto un formicolio alla nuca.

Mi giro di scatto ma non c’è nessuno dietro di me, nessuno davanti a me, nessuno neanche affacciato alle finestre del vicoletto del vecchio ghetto ebraico.

Nessuno. Non c’è nessuno.

Eppure so che se anche i colori torneranno al loro posto, prima o poi, il mondo non potrà mai più essere lo stesso, dopo la comparsa di quel buco. 






Fine?

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