10.
Mi sembra di non dormire da anni.
La corsa in moto non mi aiuta a schiarire i pensieri, e
quell’immagine, che ormai accompagna ogni singolo istante della mia vita, corre
più veloce dei 220 cavalli che rombano sotto al mio culo.
La porta a vetri della centrale mi restituisce la faccia
di uno sconosciuto.
 |
I vicoli del Ghetto Ebraico. Di notte sono bui e angusti. |
Un brutto ceffo, dalla barba sfatta da troppi giorni per
essere volutamente trascurata, capelli che reclamano urgentemente un pettine,
camicia stazzonata sotto al giubbotto di pelle. Da mollargli il portafogli
senza che te lo chieda, se lo incontri di notte nei vicoli bui del vecchio
ghetto ebraico.
L’ufficio è pigramente immerso nella solita penombra
fumosa.
Fumosa, certo. La legge è uguale per tutti tranne che
per noi sbirri e il divieto di fumare negli uffici pubblici vale ovunque tranne
qua.
Se sei così stronzo da finire in gabbia qua dentro puoi
anche morire per fumo passivo, ma se hai appena sbattuto in cella una puttana
rumena che ha infilzato il fermacapelli nell’occhio destro del protettore
insoddisfatto dei suoi introiti, non esiste legge al mondo che possa privarti
di una sigaretta. Ed anche di un bicchiere di qualcosa di forte. Molto forte.
Fabbri è riapparso. Mi saluta. Con imbarazzo. Sa che
l’ho visto quasi piangere. Lui, la roccia, lui che ci ha cresciuti tutti e ha
salvato le chiappe di metà di noi. Stava per frignare come un infante.
E’ qualcosa che cambia i rapporti fra colleghi, questa.
Per darmi un contegno vado a frugare fra i verbali della
notte precedente.
Due furti con scasso.
Una rissa fra ubriachi.
E questa? Questa è carina.
Un tizio è stato denunciato da Andreina, un vecchio
trans che batte in fiera e che ho fermato ormai un miliardo di volte. A quanto
pare, sto pirla aveva portato Andreina a casa, dove ad attenderli c’era una
recalcitrante consorte da convincere di quanto possa essere piacevole prenderlo
in culo. Me l’immagino, con il tono da checca isterica, gridare che lei non è
mica un’esibizionista, e se questi etero schifosi hanno bisogno di emozioni
forti, per godersi la vita, che trovino qualcun altro per simili porcate (o
almeno alzino di molto la parcella). Riesce persino a strapparmi un sorriso
sghembo, il primo dopo non ricordo più quanto.
Ecco. Ci siamo. A rapporto davanti all’Ispettore capo.
Non ride, non sorride neanche. Nessuna traccia di scherno, e neanche biasimo.
Sto rigido ed impettito, in attesa di sapere se mi
ritira il distintivo per malattia mentale o se mi sbatte direttamente nella
gabbia di sotto per stupro.
Sono un uomo fortunato, di due, nessuna delle due ha
fatto la stronza, congiuntura astrale più unica che rara.
Riprendo a respirare nel momento in cui lui mi rivela
cosa vuole da me. Un marito sta prendendo a calci la porta di casa dove la
moglie si è rinchiusa dopo averlo sbattuto fuori. Devo andare a fermarlo. E
possibilmente riportare la pace coniugale. E condominiale, soprattutto.
Cazzo, lo sapevo. La strizzacervelli. Sei proprio un
uomo senza palle, Capo. Al tuo posto io la terrei così impegnata, quella bella
bocca che si ritrova, che col cavolo che ti racconta che uno dei tuoi più
promettenti sottoposti è fuori di melone.
E adesso solo liti domestiche mi affibbi.
Che ci vada una pattuglia, a sedare i bollenti spiriti
dei due vecchi, tento di contrattare. Secco diniego del testone pelato del
Capo.
Dicono che gli uomini perdano i capelli per il troppo
testosterone, ma tu mi sa che sei impotente, se la tua ragazza (troia) ha tempo di raccontarti di me, quando siete
assieme.
E Fabbri? Non potrebbe andarci Fabbri? Tanto con le sue
ultime performance potrebbe essere la nostra punta di diamante per le emergenze
familiari. Va ad insegnare al marito di turno come far così tanta pena da
convincere la moglie a riaprire la porta, e se proprio non funziona potrebbe
piagnucolare insieme a lui. Fabbri, la roccia, maestro di vita.
Mi rendo conto che pronuncio ogni tentativo di scavarmi
di dosso questo incarico con voce sempre più alta e sento le mani tremare, le
serro a pugno per fermarle ma il gesto non sfugge affatto al Capo, che mi
chiede se vada tutto bene. Gli urlo in faccia che sto bene. Va tutto bene. E’
solo che ho qualche problema a dormire, ultimamente.
Tutto sommato sono riuscito a liberarmi da
quell’infamata dei due vecchi litigiosi, visto che decide di concedermi una
settimana di ferie non richiesta.
Bene. Forse tutto sommato non è una brutta idea. Mi
riposo, mi riprendo, mi prendo cura di me, un bel giro in moto, chissà, potrei
andare in Umbria, magari. Adesso però mi limito a salire sui colli e godermi
questa inaspettata libertà. C’è il sole, ed in autunno si tingono di ogni
tonalità dal giallo al rosso. Rosso. Come quel buco che sembra un fiore. Di
carne. Con spine bianche che ne trapassano il centro. E che nei miei sogni (incubi)
diventa nero. Un buco nero. Una voragine. Che si affaccia sulla mancanza di
tutto.
 |
I Calanchi dei colli bolognesi. In autunno sono grigi e spogli, e strisciano verso valle come dita scheletriche |
Alberi spogli mi corrono incontro, per poi superarmi e
sparirmi alle spalle, mentre la strada stretta segue il profilo dei calanchi,
che, a guardarli ora con il sole basso dietro S. Luca, sembrano trasportati qua
dalla Luna. Grigi, nel rosso di questo tramonto autunnale. Sgraziate e scoscese
argille, plasmate da ere di pioggia, che strisciano sul fianco del colle fino a
valle come dita scheletriche (o costole spezzate).
11.
Chiudo la città fuori dalla porta e fisso il catenaccio.
Non riuscirà ad entrare.
Controllo il cucinotto. Nessuno.
La camera da letto. Nessuno.
Il bagno. Nessuno.
Cazzo, la tenda della doccia si muove.
Un balzo felino e la strappo via dal tubolare che la
sorregge. Nessuno.
Stai andando a pezzi, te ne rendi conto?
La televisione mi fa compagnia. La lampada è ancora a
terra, rotta. Il soggiorno è vuoto, come tutta la casa. Apro una birra, incollo
le labbra al collo della bottiglia. Un formicolio alla nuca, qualcuno mi sta
fissando. Mi giro di scatto. Nessuno? Eppure mi pare che qualcosa si sia mosso,
ma non c’è nessuno. Scaglio la bottiglia ormai vuota contro la parete. Vetri
infranti tintinnano fin sul pavimento. Quello del piano di sotto batte con la
scopa sul soffitto, per intimarmi di non far casino.
Si fotta.
12.
Goccia dopo goccia ogni colore del mondo scivola dentro
al buco. Rosso. Che lentamente, con tutti i colori che si mescolano al suo
interno, si tinge di nero. Nero. Un buco nero. Aperto sul nulla. E sul fondo
del buco l’orrore.
Ecco dove ti nascondevi, piccolo bastardo.
Contorto, distorto, caricatura di un minuscolo uomo.
Mani artritiche ornate da unghie ritorte graffiano la parete di quel nulla
nero. Testa troppo larga per spalle rachitiche. Un piccolo, osceno mostro. Che
vive sul fondo di quel buco. Nero. Sia il mostro che il buco.
Che stupido. Con tutte le sue lauree pensava di catturarti
con trappole per topo?
Non esiste una trappola che possa catturarti, ma io so
come fermarti. Ora lo so.
Segue -->>