31/07/13

Agosto





Anche se non sarò mai troppo lontana da un computer da non sbirciare di tanto in tanto
Anche se non sarò mai così lontana da uno smartphone da non poter scrivere, se mi viene voglia.
Questa non è stagione per la Nebbia. 

Il caldo rende proibitivo l'utilizzo massivo di alta tecnologia
Un buon libro produce decisamente molto meno calore di un PC e si può maneggiare anche sui colli
Leggere richiede meno dispendio energetico che scrivere.

Ci rivediamo a settembre. 
Forse. 
Quando sarà di nuovo il momento della nebbia. 

Non fate i bravi! 



27/07/13

Il fiume e la nebbia

Senza parole... 








Qui non è successo niente
e non credo cambierà
come quest'acqua tra le sponde
non si ferma, ma in realtà

non ha mai cambiato il senso
e del resto come può
a quel mare io ci penso
ma mi fa paura... un po'. 
Qui non è successo niente
e non credo cambierà
e non è colpa della gente
è il cielo grigio che c'è qua

è questa nebbia che confonde
e che ci inghiotte sempre un po'
e con amore ci nasconde 
in una parola è il Po

E' per colpa di quel fiume se io sono ancora qui
perché un giorno c'era un ponte che univa gli argini
mentre adesso questo fiume in fondo è tutto ciò che ho
e tra diecimila anno è sempre qui che aspetterò

Perché in fondo il mare ha un lato
un solo lungo lato blu
e anche lo sguardo più allenato
non può vederne mai di più

mentre chi vive accanto a un fiume
anche se è grande come qui
vede benissimo il confine
e non può credere ai miracoli

E' per colpa di quel fiume se io sono ancora qua
perché un giorno su quel ponte mi fermai a metà
e quest'aria che mi opprime in fondo è tutto ciò che ho
fino a quando l'altro lato dei miei sogni troverò

Qui non è successo niente
e non credo cambierà
come quest'acqua tra le sponde
non si ferma, ma in realtà

non ha mai cambiato il senso
e del resto come può
a quel mare io ci penso
ma mi fa paura... un po'.



Daniele Silvestri
Il Fiume e la Nebbia




25/07/13

Il buco #5 (paragrafi 13 e 14)


13.

Mi sveglio di colpo, madido di sudore. Il televisore trasmette un vecchio film di guerra in bianco e nero, e l’intera stanza (terra) è illuminata da una luce grigia. Non ci sono più colori perché tu, laida presenza nascosta nel buco, li hai assorbiti tutti, goccia per goccia.

E mi osservi, dal tuo sicuro riparo.

Ma io ora lo so come fermarti.

E non sarò così scemo da disporre delle inutili trappole.

Mi alzo.

Lo specchio del bagno mi rimanda l’immagine di uno sconosciuto.

Tolgo la camicia e la ripongo nel cesto della biancheria.

E adesso siamo soli, io e te.

Adesso

Ti massacro

Ti stritolo

Ti schiaccio

E tu muori

Muori

Muori cazzo!

Si! MUORI!!!


14.

La città si è tinta di un grigio smorto.

Serpeggio fra un’auto e l’altra, evitando il contatto diretto dello sguardo con i lampeggianti blu, per non restare abbagliato.

Davanti al portone, ferma, con le porte posteriori spalancate, c’è un’ambulanza bianca e rossa, circondate da alcune auto della polizia, che le bloccano la strada in caso debba partire di corsa.  

Il poliziotto in divisa che sta sulla porta mi riconosce al volo, e mi dice di salire al terzo piano.

La porta è aperta (sfondata) su un salotto illuminato solo dalla luce che proviene da una televisione. L’Ispettore Capo mi attende all’interno e mi scorta lungo un corridoio tappezzato dal volto di alcuni poliziotti che conosco bene.

Sembrano secoli, ma alla fine attraverso lo spazio angusto, sfiorando con le spalle i corpi dei presenti, che appiccicati alle pareti sembrano poster sbiaditi.

Faccio un cenno di saluto a Fabbri, che ricambia controvoglia, poi do una pacca sulla spalla a Lazzarini, che al mio tocco si accascia contro la parete, quasi a volervi sprofondare dentro. Non vedo il suo collega, quell’idiota di Santi, ma non può essere molto distante.

Ecco, nell’oscurità prende forma e lo vedo.

Metà dentro e metà fuori dal bagno.

Un buco.

Rosso.

Che sembra un fiore di carne.

Che divora ogni colore, lasciando tutt’attorno solo grigio.

Un buco rosso. Che sembra un fiore di carne in cui gocciola ogni colore del mondo.

E al suo interno spunta metallica una lama, come una spina.

Una spina metallica. Al Centro di un buco. Nel centro di un torace. Nel centro di un uomo. Nel centro della porta del bagno. Nel centro di un palazzo. Nel centro della città. E scommetto che salendo ancora, su, fino oltre l’universo. Nel centro dell’universo ci sarebbe solo quel buco.

Alzo lo sguardo e fisso Fabbri, che sembra quasi sul punto di piangere.

Mi avvicino al corpo ed inizio i primi rilevamenti, temperatura interna, rigidità cadaverica, ora presunta della morte, compatibilità della ferita e della posizione dell’arma con un colpo auto inflitto. Riferisco al Capo ogni cosa, tranne un dettaglio. Dopo aver conficcato il coltello nello stomaco, puntato verso l’alto, passando dietro lo sterno come a voler raggiungere direttamente il cuore, la vittima lo ha roteato più volte nella ferita, creando quel buco slabbrato, rosso, che sembra un fiore.

Mentre proseguo il mio esame poso delicatamente un fazzoletto bianco sul volto della vittima. Noto compiacimento nei poliziotti presenti, che non sanno che non è un gesto di riguardo, ma l’incapacità di sopportare quegli occhi sbarrati che mi fissano, e quel ghigno sadico che contrae le labbra, schiuse su una fila di denti bianchi, come se fosse sul punto di scattare verso la mia gola ed azzannarmi.

Sto scarabocchiando il certificato di morte quando, con la coda dell’occhio, proprio là, sul fondo del bagno, noto un movimento fulmineo. Grido e lascio cadere la penna, mentre l’indice destro tremante si punta accusatorio verso un cumulo di plastica abbandonato al suolo.

Il Capo ridacchia, scavalca il cadavere e con un piede smuove quel che altro non è che la tenda della doccia, strappata dai suoi supporti e gettata a terra, chissà per quale motivo, rassicurandomi che non c’è nulla di cui aver paura, ma che comprende come io possa avere scambiato un riflesso sulla plastica traslucida per una presenza inquietante.

Percorrendo il Centro di Bologna ci si può
imbattere in canali a cielo aperto, proprio come
a Venezia. 
Gli infilo in mano il certificato di morte, e scappo via da quell’appartamento, incurante del sarcasmo che ho suscitato nell’Ispettore. Corro giù per le scale, come uno scolaretto si avventa verso l’uscita al suono della campanella e mi ritrovo in strada.

Alzo il capo al cielo, a lasciare che la pioggia grigia mi lavi di dosso quella sensazione di orrore che mi ha assalito e mi accendo una sigaretta.

Calmati, sei solo scosso. In fin dei conti non capita tutti i giorni di vedere un uomo che si trasforma in un buco.

Mi incammino per le vie del centro, diretto all’obitorio, e d’improvviso avverto un formicolio alla nuca.

Mi giro di scatto ma non c’è nessuno dietro di me, nessuno davanti a me, nessuno neanche affacciato alle finestre del vicoletto del vecchio ghetto ebraico.

Nessuno. Non c’è nessuno.

Eppure so che se anche i colori torneranno al loro posto, prima o poi, il mondo non potrà mai più essere lo stesso, dopo la comparsa di quel buco. 






Fine?

24/07/13

Il buco #4 (paragrafi 10, 11 e 12)



10.

Mi sembra di non dormire da anni.

La corsa in moto non mi aiuta a schiarire i pensieri, e quell’immagine, che ormai accompagna ogni singolo istante della mia vita, corre più veloce dei 220 cavalli che rombano sotto al mio culo.

La porta a vetri della centrale mi restituisce la faccia di uno sconosciuto.

I vicoli del Ghetto Ebraico. Di notte sono bui e angusti.
Un brutto ceffo, dalla barba sfatta da troppi giorni per essere volutamente trascurata, capelli che reclamano urgentemente un pettine, camicia stazzonata sotto al giubbotto di pelle. Da mollargli il portafogli senza che te lo chieda, se lo incontri di notte nei vicoli bui del vecchio ghetto ebraico.

L’ufficio è pigramente immerso nella solita penombra fumosa.

Fumosa, certo. La legge è uguale per tutti tranne che per noi sbirri e il divieto di fumare negli uffici pubblici vale ovunque tranne qua.

Se sei così stronzo da finire in gabbia qua dentro puoi anche morire per fumo passivo, ma se hai appena sbattuto in cella una puttana rumena che ha infilzato il fermacapelli nell’occhio destro del protettore insoddisfatto dei suoi introiti, non esiste legge al mondo che possa privarti di una sigaretta. Ed anche di un bicchiere di qualcosa di forte. Molto forte.

Fabbri è riapparso. Mi saluta. Con imbarazzo. Sa che l’ho visto quasi piangere. Lui, la roccia, lui che ci ha cresciuti tutti e ha salvato le chiappe di metà di noi. Stava per frignare come un infante.

E’ qualcosa che cambia i rapporti fra colleghi, questa.

Per darmi un contegno vado a frugare fra i verbali della notte precedente.

Due furti con scasso.

Una rissa fra ubriachi.

E questa? Questa è carina.

Un tizio è stato denunciato da Andreina, un vecchio trans che batte in fiera e che ho fermato ormai un miliardo di volte. A quanto pare, sto pirla aveva portato Andreina a casa, dove ad attenderli c’era una recalcitrante consorte da convincere di quanto possa essere piacevole prenderlo in culo. Me l’immagino, con il tono da checca isterica, gridare che lei non è mica un’esibizionista, e se questi etero schifosi hanno bisogno di emozioni forti, per godersi la vita, che trovino qualcun altro per simili porcate (o almeno alzino di molto la parcella)Riesce persino a strapparmi un sorriso sghembo, il primo dopo non ricordo più quanto.

Ecco. Ci siamo. A rapporto davanti all’Ispettore capo. Non ride, non sorride neanche. Nessuna traccia di scherno, e neanche biasimo.

Sto rigido ed impettito, in attesa di sapere se mi ritira il distintivo per malattia mentale o se mi sbatte direttamente nella gabbia di sotto per stupro.

Sono un uomo fortunato, di due, nessuna delle due ha fatto la stronza, congiuntura astrale più unica che rara.

Riprendo a respirare nel momento in cui lui mi rivela cosa vuole da me. Un marito sta prendendo a calci la porta di casa dove la moglie si è rinchiusa dopo averlo sbattuto fuori. Devo andare a fermarlo. E possibilmente riportare la pace coniugale. E condominiale, soprattutto.

Cazzo, lo sapevo. La strizzacervelli. Sei proprio un uomo senza palle, Capo. Al tuo posto io la terrei così impegnata, quella bella bocca che si ritrova, che col cavolo che ti racconta che uno dei tuoi più promettenti sottoposti è fuori di melone.

E adesso solo liti domestiche mi affibbi.

Che ci vada una pattuglia, a sedare i bollenti spiriti dei due vecchi, tento di contrattare. Secco diniego del testone pelato del Capo.

Dicono che gli uomini perdano i capelli per il troppo testosterone, ma tu mi sa che sei impotente, se la tua ragazza (troia)  ha tempo di raccontarti di me, quando siete assieme.

E Fabbri? Non potrebbe andarci Fabbri? Tanto con le sue ultime performance potrebbe essere la nostra punta di diamante per le emergenze familiari. Va ad insegnare al marito di turno come far così tanta pena da convincere la moglie a riaprire la porta, e se proprio non funziona potrebbe piagnucolare insieme a lui. Fabbri, la roccia, maestro di vita.

Mi rendo conto che pronuncio ogni tentativo di scavarmi di dosso questo incarico con voce sempre più alta e sento le mani tremare, le serro a pugno per fermarle ma il gesto non sfugge affatto al Capo, che mi chiede se vada tutto bene. Gli urlo in faccia che sto bene. Va tutto bene. E’ solo che ho qualche problema a dormire, ultimamente.

Tutto sommato sono riuscito a liberarmi da quell’infamata dei due vecchi litigiosi, visto che decide di concedermi una settimana di ferie non richiesta.

Bene. Forse tutto sommato non è una brutta idea. Mi riposo, mi riprendo, mi prendo cura di me, un bel giro in moto, chissà, potrei andare in Umbria, magari. Adesso però mi limito a salire sui colli e godermi questa inaspettata libertà. C’è il sole, ed in autunno si tingono di ogni tonalità dal giallo al rosso. Rosso. Come quel buco che sembra un fiore. Di carne. Con spine bianche che ne trapassano il centro. E che nei miei sogni (incubi) diventa nero. Un buco nero. Una voragine. Che si affaccia sulla mancanza di tutto.
I Calanchi dei colli bolognesi. In autunno sono grigi
e spogli, e strisciano verso valle come dita scheletriche



Alberi spogli mi corrono incontro, per poi superarmi e sparirmi alle spalle, mentre la strada stretta segue il profilo dei calanchi, che, a guardarli ora con il sole basso dietro S. Luca, sembrano trasportati qua dalla Luna. Grigi, nel rosso di questo tramonto autunnale. Sgraziate e scoscese argille, plasmate da ere di pioggia, che strisciano sul fianco del colle fino a valle come dita scheletriche (o costole spezzate).




11.

Chiudo la città fuori dalla porta e fisso il catenaccio. Non riuscirà ad entrare.

Controllo il cucinotto. Nessuno.

La camera da letto. Nessuno.

Il bagno. Nessuno.

Cazzo, la tenda della doccia si muove.

Un balzo felino e la strappo via dal tubolare che la sorregge. Nessuno.

Stai andando a pezzi, te ne rendi conto?

La televisione mi fa compagnia. La lampada è ancora a terra, rotta. Il soggiorno è vuoto, come tutta la casa. Apro una birra, incollo le labbra al collo della bottiglia. Un formicolio alla nuca, qualcuno mi sta fissando. Mi giro di scatto. Nessuno? Eppure mi pare che qualcosa si sia mosso, ma non c’è nessuno. Scaglio la bottiglia ormai vuota contro la parete. Vetri infranti tintinnano fin sul pavimento. Quello del piano di sotto batte con la scopa sul soffitto, per intimarmi di non far casino.

Si fotta.


12.

Goccia dopo goccia ogni colore del mondo scivola dentro al buco. Rosso. Che lentamente, con tutti i colori che si mescolano al suo interno, si tinge di nero. Nero. Un buco nero. Aperto sul nulla. E sul fondo del buco l’orrore.

Ecco dove ti nascondevi, piccolo bastardo.

Contorto, distorto, caricatura di un minuscolo uomo. Mani artritiche ornate da unghie ritorte graffiano la parete di quel nulla nero. Testa troppo larga per spalle rachitiche. Un piccolo, osceno mostro. Che vive sul fondo di quel buco. Nero. Sia il mostro che il buco.

Che stupido. Con tutte le sue lauree pensava di catturarti con trappole per topo?


Non esiste una trappola che possa catturarti, ma io so come fermarti. Ora lo so. 


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23/07/13

Levante

 
 
Il sole muore alle mie spalle
tingendo il mondo di sangue
 
e innanzi a me, enorme,
s'alza la luna, rossa, piena.
 
Mi disegna la strada da percorrere
nella notte
e immersa nell'asfalto rovente
io traccio la mappa dei lividi della mia anima.



Ieri notte la luna era rossa.


Vuoto.

Ogni volta che affronto il viaggio di ritorno l'unica cosa che avverto è un senso di vuoto.

"Che tu possa trovare ciò che stai cercando.
Anche se per adesso non sai ancora cosa sia."

Queste le parole di una creatura stupenda che risponde al soprannome di La Rossa, lasciatemi alla vigilia della partenza.

Sono tornata, e ancora non so cosa cerco.

E non so cosa, questi tre giorni, mi abbiano dato.

Se non questo senso di vuoto, che mi accompagna ogni volta che ritorno alla mia vita.

"Chi parte per cercare..."

"Ma sta un po' zitta, che stai diventando ripetitiva!"

Non permetto alla solita rompipalle Vocina di continuare.

Non ora che è notte, che la Luna è Rossa (Vega attacca!!!), che sto guidando con il volume al massimo e le casse mi gridano nelle orecchie che "I am the wonderlust king (queen)...".

Anche se in realtà non ho mai viaggiato veramente. Anche se in realtà i miei viaggi sono tutti brevi, a meno che non perda la strada di casa, e allora possono durare anni, molti anni.

"E' inutile che ti affanni a cercare. Non lo troverai mai, perché tu non sai cosa vuoi."

Torna alla carica. Ci prova, quanto meno.

"Hai ragione, almeno su questo. Non lo so. E' per questo che cerco, e continuerò a cercare. Voglio solo trovare qualcuno che lo sappia per me. Che sappia dirmi cosa voglio davvero."


Vuoto.

Come questa autostrada, che di notte, illuminata da questa Luna, così grande, così rossa, pare un nastro di sangue coagulato.

Ci sono solo io, qualche raro camion, qualche auto.

Ci sono io, la Luna e il cielo.

Che mi schiaccia.

E avverto chiaro il desiderio di perdermi.

Abbandonarmi ad una volontà che non sia la mia.

A casa mi spoglio nuda davanti allo specchio ed ammiro i graffi ed i lividi che deturpano la mia anima, che mi ricordano che sono viva.

E improvvisamente capisco che una cosa la so.

Ne voglio altri.






19/07/13

Ponente


Ancora
Come ieri
Il tramonto mi chiama
E io 
Anima zingara
Non so resistere
Al suo ordine







Ansia. 

Ogni volta che mi accingo a partire mi prende. 

Non allo stomaco. Una mano dispettosa mi aggroviglia le viscere, rimestandole costantemente. 

Soprattutto oggi, che esco dai miei schemi infilandomi in qualcosa su cui non ho il completo controllo. 

Il ponente mi chiama. 

L'ultima volta che sono fuggita inseguendo il tramonto ho impiegato otto anni a ritrovare la strada di casa. 

"Inutile che fuggi, tanto non esiste un posto dove tu non sia." 

Insiste la sommamente rompipalle Vocina, da dietro il mio orecchio sinistro, ma oggi non attacca, so già come risponderle. 

"Io non parto per fuggire, questa volta parto per trovarmi." 

"Chi parte per trovare sé stesso finisce per perdersi del tutto." 

Rilancia lei, svolazzandomi attorno e spostandosi dietro a quello destro, per disorientarmi. 

"Ma vaffanculo! Tu, Gaarder e i vostri aforismi del cazzo." 

La verità è che devo fare la pace con il mio cervello. 

L'unico modo per scacciare un pensiero dalla mia mente è renderlo reale. 

Quando diventa realtà non mi tormenta più. O entra nella quotidianità, o se ne va, ma l'ossessione, il doverci pensare costantemente, l'esserne schiava sparisce in ogni caso. 


Ansia. 


Ogni volta che mi accingo a partire mi prende. 

Una non meglio identificata sensazione di catastrofe incombente unita all'eccitazione adolescenziale per la novità, l'avventura, la scoperta. 

Amo guidare. 

Domani mi attendono un bel numero di chilometri. Circa cinquecento. Lunedì dovrò farne altrettanti. Chissà se tornerò indietro, se mi perderò strada facendo e tornerà solo una parte di me o se non tornerò del tutto. 

Se conosci la strada sai che può essere infida. Se la conosci sai che non va mai sottovalutata. 

E' come il mare che troverò ad attendermi domani sera, al tramonto. Anche il mare sa essere infido, e non va mai sottovalutato.

Sia la strada che il mare sono creature viventi e vanno sempre rispettate. 

Chi si mette in viaggio, sia per mare o per strada, deve sempre mettere in conto che potrebbe non vedere la fine del proprio viaggio. 

Questa incognita è la madre della mia ansia. 

E della piacevole sensazione che, ancora una volta, sarà il Caso, o il Caos se preferisci, a decidere cosa sarà. 

Armata della mia sola incoscienza mi butto ancora una volta fra le sue braccia, confidando che, anche questa volta, non mi lascerà cadere. 





18/07/13

Il buco #3 (paragrafi 7, 8 e 9)


7.

Non posso stare in casa questa sera. Devo uscire e non pensare. Devo far qualcosa. Devo scrollarmi di dosso questa sensazione di essere sempre osservato.

Stai andando a pezzi, lo sai?


8.

Gran brutto momento, questo, per smettere di fumare. Esco dal locale lanciando un cenno di intesa con il barista che mi farà trovare il mio posto al bancone e una birra gelata ad attendermi al ritorno, ed accendo una sigaretta.

Mi sento osservato, e m’accorgo di due tipe, due sciacquette da poco. Così conciate sembrano due contadinotte che credono di essersi vestite alla moda, ma che in realtà ricordano più due prostitute d’altri tempi.

La biondina è una gatta morta ma la mora non è poi tanto male, occhi scuri e profondi, due belle tette ampiamente mostrate dalla scollatura, labbra grandi, da bocchinara. Ridacchiano fra loro, e solo quando mi avvicino smettono di parlottare a voce bassa. La bionda da un bacio a fior di labbra all’amica e si allontana, lasciando chiaramente intendere che hanno già deciso chi delle due si sarebbe fatta sbattere.

Poche parole di intesa, l’offerta di una birra, il conto, e lei è già stretta a me sulla sella della mia moto, il seno premuto alla mia schiena, le labbra che soffiano sul mio collo e le mani che, con la scusa di aggrapparsi per non cadere, scendono fino alla patta dei miei calzoni, stuzzicandomi.

Il tempo di salire in casa ed è già nuda, inginocchiata davanti a me, a succhiarmelo. Brava, troia, che sai qual è il tuo posto, ma non è questo che voglio. Devo scaricare la tensione che mi sta dilaniando, quindi girati alla pecora e fatti sbattere come si deve. Forte. Più forte. Più forte ancora.

Smettila, cazzo, smettila, le stai facendo male.

I suoi gemiti sono diventate urla, e la voce è spezzata dal pianto e dalla paura.

La lascio di colpo, spingendola lontano e fissandola come se fosse un alieno infilatosi nel mio letto, e lei corre a rannicchiarsi nell’angolo della stanza, guardandomi, sbiascicando parole senza senso, tirando su col naso e fissandomi con gli occhi scuri sgranati, giganteschi, come se due buchi neri avessero inghiottito tutto il resto del suo volto.

Scusami, non so che mi è preso. Sto vivendo un periodo così strano. Non volevo farti male. Volevo solo divertirmi assieme a te e scaricare la tensione. Passare qualche momento piacevole, senza pensare.

La guardo vestirsi rapidamente, mentre ancora farfuglio incomprensibili parole di scusa, e sgusciare via dall’appartamento, infilandosi in una fessura della porta che richiude subito dietro di sé, forse per paura che io cambi idea e la segua, per trascinarla di nuovo dentro.

Che cazzo ti è saltato in testa? Già la strizzacervelli starà con l’ispettore capo a raccontargli di quanto sei fuori di testa, ed ora c’è pure sta troia che potrebbe denunciarti per violenza.

Hai proprio deciso di mandare a puttane la tua un tempo promettente carriera?


9.

Qualcuno mi sta fissando.

Rovescio la lampada da tavolo e nel buio balenante
di televisione mi guardo attorno.
Mi alzo di scatto dal divano, rovescio la lampada da tavolo, e nel buio balenante di televisione mi guardo attorno.

Sono sudato, ho il cuore in gola e là, vicino alla libreria, c’è qualcosa che si muove così rapido da non riuscire a distinguerlo.

Un brutto sogno. E’ stato solo un brutto sogno.

E qua non c’è nessuno, questo è il tuo solito appartamento, sono le 5 di mattina e fuori è ancora buio.


Nessuno che sfonda la porta per arrestarti per stupro. 

Nessuno in casa.

Nessuno.

Ci sei solo tu!


Dormi!



Segue


Il buco #2 (Paragrafi 3, 4, 5 e 6)


3.

Ho dormito uno schifo, ma una lama dorata penetra dalla persiana chiusa, rivelando che il buco se n’è andato, ed ogni colore è colato goccia a goccia al suo posto, dipingendo un mondo nuovo. Nuovo. Perché niente può più essere com’era prima che quel buco apparisse. 

Oggi non sono di servizio, una bella doccia, poi mi metto la tuta e vado a correre.

L’aria frizzante mi riempie la gola, e la luce del sole si posa tiepida sulla mia pelle. Piacevole.
Sembra che una mano divina abbia spazzato via il piombo che oscurava il cielo da così tanti giorni, per regalare l’azzurro di un cielo limpido, lavato dalla molta pioggia caduta.

E cazzo, è  proprio  vero che uno sbirro non è mai fuori servizio, sudato e affannato salgo in ufficio e frugo nei rapporti alla ricerca di una spiegazione.

Il rapporto preliminare. Stilato da un insonne collega che, pressato dai molti superiori, ha trascorso la notte a cercare di dare un senso a quel che senso non ha.

Porte e finestre chiuse con chiavistelli.

Nessuna traccia di intrusione.

Per entrare i colleghi hanno dovuto sfondare la porta.

Ventitré trappole per topo sparse per tutta la stanza, a circondare il corpo (quel buco).

Un thermos pieno di caffè caldo, posato a terra vicino al divano.

Avanti, deve esserci qualcosa, qua dentro, che dica che cazzo è successo.

Niente.

A quanto pare ha fatto tutto da solo.

Ha preparato un thermos di caffè nero, forte ed amaro.
Ventitré trappole per topo senza esca

Ha costellato il pavimento di trappole.

Ha preso un martello.

Si è sfondato lo sterno, assestando otto violenti colpi.

Macellando la carne.

Spezzando le ossa.

Fegato, stomaco, cuore e polmoni crivellati di schegge.

E poi fine.

Il silenzio.

E quell’orribile ghigno tronfio stampato sul viso.

Non ha senso.


4.

Che or’è?

Le due di notte, mi lampeggia in risposta il display del lettore DVD sotto al televisore.

Ma chi c’è? Non c’è nessuno, pirla. Chi vuoi che ci sia. Ti sei addormentato sul divano e hai fatto dei brutti sogni.

Nessuno dovrebbe mai vedere un buco che inghiotte tutti i colori del mondo.

Ti stupisci di aver fatto brutti sogni?

Ma che cazzo è stato. Sembrava che ci fosse qualcosa che si muove, là, al limite del campo visivo, ma è solo un istante, e quando giro lo sguardo tutto è fermo nella penombra della lampada da tavolino che ho lasciato accesa quando mi sono addormentato.

Nervi tesi.

Nessuno dovrebbe vedere quel che hai visto. Domani come prima cosa telefoni alla strizzacervelli del dipartimento, anche se tu hai sempre detto che sono stronzate da femminuccia, e ci fai una bella chiacchierata. E’ anche scopabile, magari le fai pena e prova a guarirti dall’orrore con una sana seduta di vita. Ora però dormi, che altrimenti domani avrai una faccia inguardabile, e te la scordi la psico gnocca.


5.

L’investigativa è sommersa nel torpore, tutto si muove al rallentatore, persino i telefoni sembrano non aver voglia di squillare, oggi.

Fabbri non si è visto. Un’influenza, pare.

Lazzarini e Santi sembrano due fidanzatini dopo una furente lite, si spiano di sottecchi l’un l’altro senza mai rivolgersi la parola. E questo è solo un bene, non sopporterei le coglionate che spara Santi di continuo.

Suicidio.

Bella parola. Semplice. Pulita. Sembra spiegare tutto. Soprattutto se la leggi nella prima pagina del Resto del Carlino, nella cronaca cittadina. E’ questo il bello dei giornali, rendono vera ogni notizia pubblichino. Vera e credibile. 

Chiunque non sia entrato in quella stanza sarà soddisfatto di questo risultato.

Nessun assassino di sbirri da dover catturare, solo un imbrattacarte che, a forza di studiare le menti criminali, è giunto alla conclusione che è meglio farla finita.

Chiunque non abbia visto quella maschera di sadico trionfo sarà soddisfatto.

Sicuramente lo è il questore, visto che ancora non si è messo ad urlare dal suo ufficio, per pretendere qualche acrobazia mirabolante che giustifichi il perché un uomo è diventato un buco. Circondato da ventitré trappole. Ventrité trappole! Senza esca.

Fortunatamente la dottoressa del dipartimento ha accettato di ricevermi nel pomeriggio, robe da femminuccia, certo, ma a me basta che mi dia qualcosa per dormire.


Non posso continuare a svegliarmi di soprassalto con quel fiore davanti agli occhi, che da rosso diventa nero, man mano che il mondo gli cola dentro. 


6.

Sfrecciare nel traffico con la moto mi fa sentire libero. Leggero. Peccato che ogni viaggio, breve o lungo che sia, debba forzatamente trovare la sua fine, altrimenti sarei capace di continuare a correre nel traffico per sempre. A questa velocità si ha l’impressione di seminare i pensieri.

Lei mi aspetta. La ricordavo più carina, ma ovviamente niente è più come lo ricordavo.

Mi stringe la mano e mi fa accomodare su un divano molto comodo, lei si siede sulla poltrona accanto ed accavalla le gambe, lunghe ed affusolate, inguainate in calze velatissime, la minigonna che concede un vasto nonché piacevole panorama ai miei occhi.

Saltiamo i convenevoli, le dico. Non ho fiducia né in lei né nel suo lavoro, aggiungo, ma ho bisogno di (dormire) parlare con qualcuno.

I suoi occhi mi osservano con distacco, mentre le racconto di come, all’improvviso, tutti i colori del mondo siano spariti, inghiottiti da quel buco, così rosso da far scolorire ogni cosa.
E quello? Era un sorrisetto di scherno? O compassione?

Che cazzo hai da ridere, troia. Vorrei che avesti visto tu quel che abbiamo visto noi. Non avresti più tanta voglia di ridere.

E’ stato un errore, venire qua. Balbettando invento una scusa per andarmene, e quando sono vicino alla porta lei mi ricorda che è a mia disposizione, se vorrò continuare a parlarle.
La foto alla parete, lei in compagnia dell’ispettore capo.

Cazzo, che scemo. Eri ad un passo dalla promozione. Ma ora… Ora quella troia dirà al suo amichetto che sei pazzo, nevrotico, ti sei rovinato la vita con le tue stesse mani. E tu, cretino, che pensavi di scopartela. Figurati se quella si fa scopare da te. Lei si fa sbattere solo da alti graduati.

Ed ora ti metterà nella merda fino al collo. 



Segue