"La sua vita era iniziata diversi anni prima, a sedici anni, un pomeriggio di fine estate, al tramonto, quando il sole basso tinge di rosso le colline ed i boschi. In quel preciso istante l’incoscienza della fanciullezza le veniva strappata via da un mostro troppo orribile per essere guardato negli occhi.
Non c’era nessuno, attorno, solo il cicaleccio degli uccelli, quando si scambiano gli ultimi canti prima di dormire, e la bestia.
Calda, ansimante, con la bava alla bocca, si premeva su di lei facendole male, facendole desiderare di non esserci più.
Chiuse gli occhi e lasciò che la bestia compisse il suo rito, placando la sua fame, senza più sentire gli uccelli cantare, il respiro caldo e affannoso del mostro, il dolore.
Chiuse gli occhi, e non sentì più nulla, neanche sé stessa."
...
"Era un tardo pomeriggio di fine estate, quando la belva si svegliò.
Era sempre stata là, addormentata nel fondo della sua anima malata, ma lei non si era mai accorta della sua presenza se non certe volte, la notte, quando rumorosamente s'agitava nel sonno perenne, dettandole incubi così vividi da farle mordere la lingua, per la tensione.
Dicevano che fosse una bambina tranquilla, ed in effetti era quello che lasciava intendere a chiunque, nascondendo una rabbia incontrollata che lasciava uscire solo raramente, celandola con astuzia dietro il candore di un errore ingenuo di bambina, come quando aveva coscientemente punito il padre per una presunta ingiustizia, facendo sì che si ferisse il piede con delle puntine da ingegnere e poi scusandosi per la disattenzione, mentre in realtà era stato un gesto premeditato, studiato e covato rancorosamente per lunghe ore.
Ma quel giorno, a sedici anni, la belva venne svegliata.
Due animali stuzzicarono il corpo in cui dormiva placidamente, ed il dolore, la rabbia, la vergogna e l'umiliazione furono cibo prediletto per una creatura così abbietta, e se ne nutrì, e di queste sensazioni immonde si fece forte.
Rimase ad incubare per nove mesi, gravidanza impura della violenza, e al rifiorire delle rose venne alla vita con un rigurgito di rabbia.
Spogliata delle carni dell'infanzia, consapevole del peccato, alla ricerca di una ristoratrice vendetta, dall'esilio di quei nove mesi nacque Sophia.
...
"Non accettare passaggi in macchina da ragazzi, e non uscire con ragazzi più grandi di te."
Ecco, se un po' mi si conosce, dirmi una cosa del genere equivale a caricarmici sopra, a quella macchina. Adolescente, inquieta, tetra come una campana a morto, ribelle, perennemente contro tutto, sedicenne. Mettici pure un cartellone al neon lampeggiante, che punta alla macchina in oggetto, per essere certo che non mi sfugga!
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Ci siamo, amico mio, avrai già capito dal doppio incipit che questa notte sarà una notte speciale.
Ho affilato il bisturi, e sono pronta a tagliare. Proprio come in un'autopsia, il punto che mi interessa questa sera è situato nella cassa toracica, sopra al plesso solare, dove c'è il diaframma. Dove si incastra il respiro, quando un'emozione molto forte ti fa perdere un battito del cuore (ti fa perdere il cuore).
E' là che la belva vive. La belva che sono io. Ed è là che andremo a guardare, direttamente. Nell'attimo in cui si è svegliata, e ha preso il controllo di me.
Salvandomi, probabilmente, dalla follia. (ma tu sei folle!)
Si parlava di scelte. Io ho scelto di violare una richiesta di mio padre. Io ne ho pagato le conseguenze. Forse il prezzo è stato un po' troppo salato, ma in certe occasioni non è facile mercanteggiare.
Non servono molti dettagli.
Loro erano due.
Figli di papà.
Io ero una.
Scema.
Ammaliata da un tipo di attenzioni a cui non ero assolutamente abituata.
Alla proposta del giro in macchina e alla passeggiata nel parco sui colli non ci ho visto nulla di male, manco fosse stata la prima volta.
Colpa mia, non dovevo andare.
Colpa loro, non dovevano pretendere.
Colpa nuovamente mia, non avrei dovuto arrendermi.
Di fatto, ho staccato la spina.
Quando ho sentito male mi sono arresa e me ne sono andata.
Che facessero quel che volevano, tanto io non c'ero più.
Io ero andata laggiù, amico mio, sul fondo dell'abisso, dove la Bestia era sveglia. E stava pian piano prendendo il mio posto. Per quasi due anni, dopo quel giorno, non ero più io, ma un'entità rabbiosa, che viveva con il solo scopo di fare del male a qualsiasi essere umano gliene offrisse il benché minimo motivo. Quella che già una volta abbiamo chiamato Sophia.
Il primo ricordo lucido è la doccia, io accucciata con l'acqua rovente che mi brucia la pelle, il vapore, la nebbia, e nessuna lacrima, nient'altro che rabbia, umiliazione, ed odio.
Ma non per loro. Per me. Che non ho avuto il coraggio di staccarglielo a morsi, almeno ad uno dei due. Poi probabilmente mi ammazzavano di botte, ma sai che soddisfazione?
Nove mesi a metabolizzare quello che era successo. E ad imparare a conoscere quella nuova me, Sophia, che non aveva più nulla in comune con la ragazzetta che c'era stata fino all'estate prima.
E quando Sophia uscì di casa, per la prima volta, era completamente vestita di nero, portava un trucco perfetto, che la faceva sembrare una tragica bambola di porcellana e circa tre chilogrammi di catene avvolte attorno al corpo.
Ed era molto determinata a non permettere che si ripetesse mai più qualcosa di simile.
...
Per anni non ho mai raccontato a nessuno quel che era successo, neanche alla mia migliore amica, che non capiva i miei rifiuti ad uscire, né ha mai capito il mio cambiamento, quando finalmente ripresi a farmi vedere.
Un'altra esperienza da aggiungere al bagaglio della mia vita.
Ho imparato molto, quel giorno.
Ho imparato che so applicare istintivamente le tecniche di sopravvivenza che vengono utilizzate per resistere alle torture, ad esempio, non che mi serva a molto, però è una cosa interessante.
Ho anche imparato che dentro di me esiste un'oscurità latente e che è bastato nulla per risvegliarla, ma ora mi è impossibile rimetterla a dormire.
Ed ho imparato che quando si fa un patto con il diavolo, amico mio, si deve fare molta attenzione ai termini, altrimenti ti frega.
Tu invece, cos'hai imparato?